Blade Runner 2049, un replicante che merita di esistere

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BLADE RUNNER 2049 di Denis Villeneuve                                                                                           VOTO: 8.5

Anno 2049. Pioggia, neve, vento, nebbia, smog, polvere. Rumorosi velivoli fendono l’aria, rarefatta e sospesa su un’immensa discarica a cielo aperto, a sua volta sovrastata da ipnotici ologrammi tridimensionali che volteggiano, ammiccano e seducono a colpi di pixel, e da grattacieli compatti e soffocanti come immensi villaggi del Maghreb innestati sulla planimetria di Manhattan. In un universo in disfacimento come questo, in una siffatta Babele brulicante di lingue diverse, c’è ancora posto per l’umanità? E se così è, cosa vuol dire essere umani?

“More human than human is our motto” (Più umano dell’umano è il nostro motto), affermava con convinzione il vecchio Tyrell, patron dell’omonima corporation produttrice di replicanti in Blade Runner di Ridley Scott, un film seminale, che nel suo proporre un’ardita commistione di sci-fi e film noir ha a suo tempo ridefinito i confini e i canoni di un genere. E’ troppo presto per tirare le somme e dire se il sequel con Ryan Gosling sia o meno all’altezza della sua matrice, ma è chiaro sin dalla prima inquadratura che il regista Denis Villeneuve nutre ambizioni smisurate e non si limita certo a proporre un mero giocattolo/origami nostalgico da innestare nella mente di fan sfegatati dal capello ingrigito. Nel film la questione dell’umano certo non va perduta nel tempo come lacrime nella pioggia, ma continua ad essere il centro gravitazionale di una riflessione filosofica che prenderà direzioni imprevedibili.

 

L’UMANO, NIENTE DI PIU’ NIENTE DI MENO.

Siamo nel 2049 e i replicanti sono ancora più umani e avanzati del vecchio modello Nexus-6 del film di Scott. Se a distinguerli non ci fosse un codice impresso alla base dell’occhio destro, finirebbero per confondersi e amalgamarsi perfettamente alla massa indistinta dei non replicanti. Non a caso l’incidente scatenante del film, una scoperta che per ragioni di spoiler non riportiamo per intero, evidenzia ancor di più il loro acquisito surplus di umanità, lasciando intuire che potrebbero addirittura riprodursi o che addirittura l’abbiano già fatto.

Il protagonista si chiama K, è un replicante di nuova generazione e il suo compito è ritirare i vecchi androidi, proprio come faceva l’agente Rick Deckard nel film di Scott del 1982. Il suo primo obiettivo è quello di rintracciare e far fuori un replicante che vive da solo in una fattoria, ma senza volerlo apre uno squarcio insanabile sul suo passato, reale o presunto che sia, e su misteriosi ricordi che gli riveleranno il suo essere più profondo. A tirar fuori i suoi sentimenti più reconditi e a dar corpo al suo lato umano ci pensa un’intelligenza artificiale, Joi, che si materializza nelle sembianze di un ologramma femminile casalingo. Il rapporto con Joi è molto complesso e riecheggia per certi versi la storyline amorosa tra Rachel e Deckard nel primo film. Sebbene siano fatti di quella stessa pasta chiamata artificialità, sia K che Joi posseggono una coscienza, o meglio delle emozioni, che è poi uno dei temi chiave del film.

L’agente K è interpretato da un superbo Ryan Gosling, che col suo sguardo algido e imperscrutabile cela con abilità le sue debolezze e restituisce sullo schermo tutta la fisicità e la terribilità di un perfetto replicante, sempre in bilico tra la naturalezza dell’uomo e l’artificiosità della macchina. Il sintetico nome K non è casuale e a parere di chi scrive richiama il Joseph K protagonista del Processo di Franz Kafka. Proprio come avviene nel romanzo, anche per il K di Blade Runner 2049 tutto diventa improvvisamente assurdo e, piuttosto che quella degli altri, è la sua vita a trasformarsi in un enigma da risolvere. Il classico topos del conflitto esterno del detective inteso come caso da risolvere tipico del film noir viene così superbamente ribaltato e trasformato in un conflitto interno. K si mette dunque alla ricerca del senso ultimo della sua esistenza, delle sue origini e di qualcuno a cui è ancora legato, muovendosi attraverso gli spazi sproporzionati e alienanti di un universo distopico non dissimile da quello kafkiano.

Ad ostacolare K nel suo percorso di scoperta e presa di coscienza di sé c’è la spietata replicante Luv, al servizio del patron della Wallace Industries, il demiurgo Wallace (interpretato da un ispirato Jared Leto), erede di Tyrell e il cui grande obiettivo è quello di favorire l’espansione delle colonie extra-mondo attraverso la messa a punto della capacità di riprodursi dei replicanti. Proprio nella sequenza finale con Wallace è rinvenibile una delle scene più intense e significative del film, in cui il regista tenta addirittura di riscrivere l’antefatto della storia di Rachel e Deckard, protagonisti del primo film di Scott. Non si tratta soltanto di una scena emozionante per tutti i fan del primo film, ma è anche e soprattutto una potente metafora metalinguistica di riscrittura, un’evidente e innegabile eco della matrice (Blade Runner di Scott) nel suo derivato replicante (Blade runner 2049 di Villeneuve).

 

GIOCO DI SGUARDI.

Il tema dello sguardo, già presente nel film di Scott, è un leitmotiv anche nella pellicola di Villeneuve. Infatti, Blade Runner 2049, proprio come il film originale, si apre con l’inquadratura di un occhio a schermo pieno, un invito a guardare quelle “cose che noi umani non potremmo immaginare…” Lo stesso protagonista K è ingannato da quello che vede, sia nella banca genetica a cui lo conduce Deckard, sia nella sua mente mentre scandaglia il ricordo del cavallino di legno. Il film si interroga anche su questo: cosa significa vedere per davvero? Lo stesso creatore di replicanti Wallace è cieco, e per guardare ha bisogno di surrogati volanti degli occhi, così come uno dei capi di una setta di replicanti che corre in aiuto di K ha l’orbita oculare destra vuota appositamente per non farsi identificare.

A livello puramente spettatoriale, invece, quel che noi vediamo è una serie ininterrotta di immagini straordinarie costruite attraverso un sapiente uso metaforico della luce. Il film raggiunge vette talmente impareggiabili dal punto di vista fotografico che quasi certamente ai prossimi Academy Awards al direttore della fotografia Roger Deakins, reduce da ben 13 nomination andate a vuoto, verrà finalmente consegnata la tanto agognata statuetta. Anche le citazioni visive di un cinefilo qual è Villeneuve abbondano. Si va dagli omaggi ossequiosi al film di Scott fino alla citazione più o meno velata della cosiddetta “Stanza” in Stalker di Andrej Tarkovskij, passando per l’amore nei confronti di intelligenze artificiali già messo in scena in Her di Spike Jonze.

 

IMPERFEZIONI DA REPLICANTE: GLI ERRORI DEL DEMIURGO WALLACE/ VILLENEUVE.

Fondamentalmente quel che manca al film del demiurgo Villeneuve è un antagonista degno dell’energico Roy Batty del film di Scott, manca cioè qualcuno che non si limiti soltanto a contrastare il nostro protagonista per i suoi alti e nobili fini, ma che stia anche lì a urlare: “I want more life!” (Voglio più vita!) e alla fine decida di sacrificare la propria per salvare quella del protagonista Rick Deckard appeso al cornicione di un tetto in balia della pioggia battente.

Nei passaggi più farraginosi di Blade Runner 2049 sembra che i personaggi si trascinino a compiere delle azioni dettate più dal plot che dal naturale comportamento del personaggio. Insomma si sente la mano dello scrittore che forza azioni, decisioni e direzioni narrative. Ma è un peccato veniale, soprattutto se si pensa poi a come il film riesca a bilanciare la giusta dose di rivelazioni e svolte narrative con il giusto tempo su schermo dedicato alla riflessione poetica e ai momenti di sospensione contemplativa. Anche la colonna sonora curata dal duo Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch risulta puntuale ed evocativa, ma certo non raggiunge mai la qualità e la capacità di toccare le corde dell’anima dell’impareggiabile partitura composta a suo tempo da Vangelis per il film di Scott. Tant’è vero che l’unico momento in cui emoziona per davvero è nel finale allorché ripropone il leitmotiv del main theme di Vangelis.

Ciononostante la mitologia di Blade Runner non poteva capitare in mani migliori se non quelle di Denis Villeneuve, regista reduce dallo strepitoso successo di Arrival, film di fantascienza in cui aveva già dato prova di saper rimodellare la forma del genere sci-fi con arditi flashforward e una riflessione filosofica degna di 2001: Odissea nello Spazio. Sarebbe stato incredibilmente facile rilanciare il franchise Blade Runner ripartendo semplicemente dalla storia della fuga di Rachel e Deckard per vedere a quale esito avrebbe condotto; invece gli sceneggiatori e il regista hanno dovuto fare salti mortali per inventarsi un tema, una storia e un impianto visivo che evitassero la ripetizione e la forzatura, e fossero al contempo capaci di tributare il dovuto omaggio all’originale pellicola di Ridley Scott.

In Blade Runner 2049 non c’è alcun tentativo di riscrivere o reinventare il prequel, anzi si può dire che i due film ormai lavorano in tandem per arricchire la nostra esperienza della storia e la profonda e universale riflessione che il franchise propone da oltre trent’anni. In sostanza il film di Villeneuve si rifiuta di dare risposte prestabilite e assertive, e come tutti i grandi film, invece di imporre passivamente un significato, concede allo spettatore l’alea del dubbio e la possibilità di riflettere in privato per cercare un significato personale.

In questo senso Blade Runner 2049 risponde alla domanda centrale che esso stesso solleva per la sua intera durata: “Cosa vuol dire essere umani?” Vuol dire avere libertà di pensiero ed esercitarla.

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